Logo di Micene

Associazione Culturale Micene

- Parole in Movimento -

           
 

 

 

 

   

 

- Il partigiano -

 

5- Il partigiano Armando

L’otto di settembre del '43 era passato da un bel pezzo ed era, ormai, autunno inoltrato quando mio padre, fra la sorpresa di tutta la famiglia, tornò improvvisamente a casa. Da un po’ di tempo non giungevano più lettere dal fronte ucraino e mia zia lo dava per disperso, prigioniero dei russi o morto.

Certo che aveva fatto un viaggio tortuoso e travagliato per giungervi. Arrivò a Trieste in treno dove, come prima cosa, furono fatti passare completamente nudi fra due ali di soldati che li spruzzavano con il DDT: questo per disinfestarli da pidocchi o parassiti: l’igiene nei carri bestiame era quello che era e lavarsi a 30 °C sottozero era un’impresa folle e mortale.

Rimasero a Trieste per qualche settimana, sempre guardati con sospetto anziché come eroi. I cinegiornali Luce, fra un tempo e l’altro del film, tacevano sulla gloriosa Armir.

E poi di nuovo su quei maledetti carri bestiame fino ad Ancona, dove pareva che avessero attraversato l’Adriatico per dare un aiuto ai soldati italiani in Grecia ed Albania in chiara difficoltà.

Poi giunse l’otto di settembre del '43: la guerra continuava, ma contro chi? Questo fu ben presto chiaro quando l’Italia da paese alleato divenne un paese da conquistare da parte dei tedeschi o da liberare (da parte dei partigiani e degli alleati). Mio padre risalì la penisola un po’ a piedi, un po’ viaggiando di nascosto su vari e scassati treni. Se fosse stato catturato dai tedeschi, sarebbe stato fucilato sul posto come disertore perché “legalmente” aveva due scelte: o far parte dei soldati della Repubblica di Salò o arruolarsi nell’esercito germanico.

E, invece, giunse a casa di sera, con l’ultimo treno della Ciriè-Lanzo. Era sporco, emaciato, affamato ma felice anche se era chiaro che a casa non ci poteva restare per più di due giorni, perché i Regi Carabinieri venivano ogni due giorni a controllare che mio nonno dormisse beato nel suo letto sotto gli effetti del farmaco dell’alcool. Ma sarebbero passati questa volta i Carabinieri? A proposito con chi dovevano stare i Carabinieri?

Ebbe molte cose da raccontare alla famiglia riunita, ma non gli bastò il tempo.

Un mattino mia zia, sempre la prima ad alzarsi ad accendere la stufa, trovò sul tavolo la tessera del PNF di mio padre stracciata e poche parole : “Vado in montagna, da Franco”.

E questa era la decisione più giusta e “sacra” che mio padre poteva prendere. Non era nato per scappare e nascondersi in continuazione. Se morire si doveva, tanto valeva farlo per una giusta causa. La morte è sempre orribile, morire è sempre ingiusto: tutti i morti meritano pietà. Ma non è la stessa cosa, alla fine, morire per la libertà o morire difendendo una tirannia arrogante e sanguinaria.

Era chiaro che era partito in bicicletta per raggiungere Viù dov’era distaccata la XIX brigata Garibaldi di ispirazione socialcomunista. Lì ritrovò mio zio Franco. Anche lui, appena terminato il servizio militare, si sposò; ma ebbe ancora il tempo di fare due figli prima di prendere quella non facile decisione: o la montagna o i repubblichini. Anche coloro che avevano già fatto il soldato nell’esercito regolare erano richiamati a farlo in quello di Salò.

Era stato nominato dal Partito Commissario Politico della brigata, doveva cioè spiegare a quei giovani il perché di quella lotta, i principi che la muovevano e (se c’era tempo) i fondamenti del marxismo.

Mio padre non ebbe un ruolo così eroico, anche se partecipò a tutte le azioni di guerra, fu nominato furiere, in un certo senso magazziniere, ed aveva il non facile compito di provvedere al cibo, ai vestiti, alle scarpe, alle armi di circa 500 persone.

Andare da un contadino con 40 vacche e chiedere di prelevarne almeno 5, pagandolo con una cambiale del CLNAI (Comitato di Liberazione Alta Italia) che sarebbe stata onorata al termine della guerra, non era certo un’impresa facile – “E se il contadino non voleva? – Gli chiedevo io da bambino. “Beh, è ben per quello che andavamo sempre armati in queste dure missioni”, mi rispondeva sorridendo. “Forse anche per queste dure missioni fui nominato tenente” e qui il sorriso diventava quasi un riso beffardo ed autoironico. Partecipò a diverse battaglie e a scontri a fuoco (nessuno ne era esentato, se non i feriti gravi). I tedeschi e un manipolo di repubblichini, facendo del Collegio di Lanzo il loro quartier generale invece di ritirarsi (la guerra era ormai persa: i russi avevano sfondato il fronte orientale agli anglo-americani si preparavano a sbarcare in Normandia), decisero di liberare quelle vallate dai “banditen italianen” e così risalirono le tre valli per fare piazza pulita di ogni forma di resistenza. Superiori per numero ed armamento, ma inferiori per coraggio e determinazione, iniziarono la loro “piccola guerra”. La più famosa fu quella del “Colle del Lys”: punto strategico perché metteva in comunicazione le valli di Lanzo con quella di Susa e il torinese.

Dopo giorni di aspra battaglia, nella quale mio zio ebbe il femore spappolato da una granata tedesca, i partigiani dovettero ritirarsi e stabilire il nuovo quartiere prima a Balme e poi a Malciaussia dove i tedeschi non sarebbero di certo arrivati. Sarebbe arrivato, invece, l’inverno e non c’era da stare allegri… Mancavano di tutto e allora fu organizzata l’impresa più disperata ed eroica della loro storia: l’assalto al magazzino dell’aeroporto di Caselle.

Partirono di notte, non so in quanti fossero, ma partirono a piedi. Poi sequestrarono dei camions e con quelli e uccidendo i tedeschi e i repubblichini che si opponevano.

Giunsero all’aeroporto di Caselle e, dopo aver ucciso qualche guardia tedesca per dare il “buon esempio” agli altri, si fecero aprire i magazzini dove presero tutto ciò che loro serviva. Ma cosa più importante furono le mitragliatrici che permisero loro di spazzare via i posti di blocco organizzati dai tedeschi. Ritornarono la notte successiva chi a piedi, chi con i muli sequestrati sempre con il metodo della “cambiale CLNAI”, chi con le piccole Jeep dell’aeronautica che erano pure in grado di inerpicarsi su quella stretta strada che, invece, aveva fermato la potente armata germanica.

E così quell’inverno passò ancora tranquillo…

Ma è chiaro che non poterono rimanere lì per sempre e così, attraverso il Lago e il Colle della Rossa, arrivarono in Francia nella valle del Var, con mio zio e gli altri feriti trasportati in barella da due muli. E si portarono dietro pure quei pochi prigionieri italo-tedeschi che erano riusciti a catturare. Per loro, almeno, erano merce di scambio non inutili bocche da sfamare o da eliminare con un colpo alla nuca. Fu proprio mio padre che minacciò un commilitone di denunciarlo alla Corte Marziale (c’è n’era una anche per i partigiani) se, per caso, avesse ancora malmenato un tedesco. L’altro gli rispose che non gli avrebbe parlato così se fosse stato “ospite” in Via Tasso, 2 a Torino: sede dalla Gestapo e delle SS . E mostrò le mani a mio padre: le unghie non c’erano più, gliele avevano stappate con ferri roventi perché al loro posto c’erano dei piccoli grumi neri di sangue ormai rappreso da tanto tempo. Mio padre non esitò molto a rispondergli: “Ecco perché li combattiamo: perché dobbiamo essere migliori di loro”. E per avere malmenato un prigioniero tedesco già ferito mio padre gli inflisse tre giorni di prigione: era pur sempre un suo superiore. Quando andava a portare il rancio ai prigionieri (altra incombenza di mio padre) ci andava sempre munito anche di garze, bende, disinfettanti e, farmaci. Chissà come mai si chiedevano gli altri?

Quando arrivarono in Francia, la guerra era ormai agli sgoccioli. I francesi non si dimostrarono molto entusiasti di accoglierli e diedero loro le solite due offerte: o “La légion etrangére” o essere riconsegnati agli italiani. E chiaro che scelsero tutti la prima, anche perché la sede della Legione Straniera era a Mentone, sulla Costa Azzurra. Per un po’ fecero una vita pacifica e tranquilla, mio padre si arrabattava con il suo franco-piemontese a fare la spesa quotidiana per i negozi (mense separate per i francesi e gli italiani nella Legione), bagni di sole in qualche villa sequestrata ad inglesi scappati per la paura della vicinanza con l’Italia e passeggiate sulla Promenade des Anglais: proprio come aveva visto fare da attori brillanti e azzimati in certi film dell’epoca.

Ma la pacchia non poteva durare per sempre. Un bel giorno solo gli italiani della Legione (chissà come mai?) furono chiamati a conquistare il forte di Var. Unico piccolo lembo di territorio germanico in Francia, che chiudeva la vallata del Var. Prenderlo risalendo la valle, significava una cosa sola: morte sicura.

Così, molti italiani iniziarono ad arrampicarsi dopo aver fatto testamento.

Dopo un’estenuante salita giunsero al forte. Strano, nessun colpo d’arma da fuoco venne esplosa contro di loro… Con un pesante palo sfondarono il portone e… sorpresa!

Il forte era vuoto: i francesi si erano fatti scappare i tedeschi, evidentemente, di notte, proprio come i topolini sotto i baffi di un gatto inferocito.

Questo non diede grande lustro alla rinomata invincibilità della “Lègion ètrangère”.

E così finì la seconda guerra mondiale. I Francesi, e mio padre con loro, giunsero a Cuneo in una città ormai liberata dai Partigiani da qualche giorno per sfilare da vincitori, per proclamare al mondo “la grandeur” con l’aiuto di qualche straccione italiano che adesso sfilava dietro di loro disarmato, senza nemmeno l’onore delle armi. Scommetto che, in quel momento, pensando ai suoi morti partigiani e al suo prigioniero tedesco a mio padre spuntarono due nascoste lacrime.

 

6- Dopo

Non è vero che le guerre finiscano con la pace: le difficoltà, gli odi ed i rancori persistono a lungo, anche per più generazioni. Proprio per questo, in quella domenica già un po’ afosa di giugno, mio nonno ringraziò Dio o chi per lui perché non avrebbe voluta perdersela per nulla al mondo. Fu aiutato a vestirsi di tutto punto da mia zia e, con il suo passo un po’ incerto e traballante, tenuto sotto braccio dai fratelli maggiori, con legittimo orgoglio si recò a votare per il referendum fra Monarchia e Repubblica. Era fiero con il suo sguardo che si volgeva intorno per cercare con gli occhi coloro che lo avevano deriso tanti anni fa.

Li vide ma, questa volta lo salutarono deferentemente, con garbo e cordialità. Il paesello era in festa tappezzato di nastri e bandiere tricolori: ad alcune, eloquentemente, era stato ritagliato lo stemma sabaudo. Depositò con raddoppiato orgoglio la scheda nell’unica urna e tornò a casa seguito dal piccolo codazzo dei figli. Fece appena in tempo a compiere “il suo dovere” perché pochi mesi dopo fu sepolto con lo stesso abito del dì di festa, di gloria e di infamia.

Intanto da Mathausen era tornato anche mi zio Mario: non vi era stato mandato come “Prigioniero politico”, ma come “Lavoratore alleato”: negli ultimi tempi la Germania doveva produrre il suo massimo sforzo nel campo dell’armamento bellico e le braccia erano tutte al fronte a sostenere i Mauser e quindi… La differenza? Nessuna, o meglio, una c’era: se sbagliavano o disobbedivano non venivano impiccati ma, al massimo, ricevevano qualche frustata: un trattamento assai più umano…

“Cosa vuoi: è sempre stato così. Prima eravamo tutti fascisti, poi tutti antifascisti”, alle mie osservazioni sulla coerenza di Nonno Guglielmo e di altri antifascisti più famosi, mio padre era solito dire che contavano assai poco e che il vero (anche se non l’unico) sbaglio di Mussolini fu di entrare in guerra. Di lì, la disfatta, la Resistenza e la sconfitta. “Se Mussolini non avesse perso la guerra, ci sarebbe lui ancora adesso, sai noi Italiani…”, io rabbrividivo solo al pensiero di quelle parole.

La guerra non porta la pace, ma l’arte di arrangiarsi sì. I fascisti e i padroni, in genere, fecero in tempo a capire che aria tirava dopo la disfatta russa e, sotto sotto si proclamavano critici col regime e così poterono discretamente gioire il 25 aprile. Ma anche qualche partigiano si arrangiò e, con i suoi meriti, veri o presunti, si fece assumere nella pubblica amministrazione o nell’esercito regolare.

“Solo gli onesti, cioè i fessi, non si arrangiano mai” diceva a me piccolino, mentre seduto ai suoi piedi guardavo meravigliato la destrezza con la quale si allacciava le scarpe.

Ma, alla fine, si arrangiò anche lui: fu assunto come magazziniere alla “Bender&Martiny” fabbrica dove lavoravano l’amianto, la cui pericolosità era nota almeno da 100 anni. Lì non badavano al colore politico, anzi se morivi era sempre un “rosso” in meno e in ogni caso ci pensava l’INAIL a risarcire i superstiti e le vedove. Le visite dell’Ispettorato del lavoro erano sempre preannunciate dal diradarsi della nebbia di amianto e dagli ordini impartiti dai capi agli operai di mettersi la mascherina. Ma io non pensavo a queste cose a tre anni: io, verso le sei mi sedevo compunto sugli scalini esterni che davano sulla strada e aspettavo gli squilli di campanello che mio padre faceva sempre. C’era un incrocio, poco prima, ma secondo me lo faceva per avvisarmi del suo arrivo. Quando giungeva gli saltavo al collo e lo baciavo: lui non voleva perché diceva che “ti attacco l’amianto”. Andava di sopra a cambiarsi e poi scendeva in cortile a giocare con me: e la fine delle giornate estive vedevano un uomo dai capelli ormai brizzolati e un bimbetto biondo corrersi dietro felici, lasciando lunghe ombre sul terreno.

Sì, perché dopo sposati, mio padre e mia madre andarono a vivere a “casa Perotti” un ex villa patrizia in rovina, ma assolutamente affascinante. Non in tutta la villa, dove ci abitavano almeno 20 persone, ma in una piccola porzione: una stanza da letto, una cucina che fungeva anche da salotto e un gabinetto in cortile. Ci lavavamo in una grande bacinella di zinco e io, riottoso e piangente, suscitavo le ire di mia madre perché bagnavo tutto il pavimento e lo sporcavo. Mia madre era molto severa con me e si lamentava spesso con mio padre il quale mi sgridava con gli occhi sorridenti… Soffriva, mia madre, di depressione e di esaurimento nervoso, e spesso non mi guardava (se non per darmi da mangiare) per intere giornate. Ma io non ero troppo dispiaciuto. Passavo le giornate a casa di Tildina, una ragazza bellissima, che io avevo promesso solennemente e fra l’ilarità generale di sposare (nonostante ci fossero stati venti anni di differenza). Lei mi prendeva sulle ginocchia e mi raccontava storie bellissime. Oppure andavo a trovare Giacinto: un signore grande e corpulento che, insieme alla moglie Dorina, erano sfollati dal Veneto ed erano un po’ i portinai e i giardinieri di “casa Perotti”. Lui mi portava in giro per il giardino mentre spazzava o raccoglieva le foglie secche in autunno. E mi faceva vedere il grande pino in cima al quale sosteneva di esserci un magnifico gallo colorato. Io guardavo spesso in cima al pino, strizzavo gli occhi ma non vedevo e non sentivo niente. “Se è un gallo perché non canta?” chiedevo a Giacinto. “Xè tropo vecio per cantar e per andar de drio ale galine!”. Io, naturalmente, non capivo niente, ma continuavo a guardare di sottecchi la cima del pino. Un’altra meta del nostro giro di pulizia era la grande vasca circolare in mezzo al giardino. In mezzo c’era una statua ormai rovinata e corrosa dal tempo che Giacinto chiamava “el sior Antonio” con il quale ci faceva dei lunghi discorsi in veneto suscitando la mia solare ilarità. Allora “il sior Giacinto”, si metteva gli stivaloni, entrava dentro la vasca e, con aria finta burbera, oltre a togliere le foglie, mi restituiva le mie barchette che avevo fatto e che erano naufragate proprio contro la statua.

Per me, piccolino, non era una vita poi così male se non fosse stata per mia madre la cui unica preoccupazione era che non mi sporcassi se no mio padre si arrabbiava e lei doveva ricambiarmi e per l’asilo delle suore. Lì ci andai un giorno solo tutto imbronciato col mio panierino di vimini con dentro la mia mela e il mio pranzo. Ma, ditemi, quale bambino con a disposizione tutto quel ben di Dio, avrebbe voluto andare all’asilo?

Certo: eravamo poveri ma, alla domenica, il mio bel piattone di pastasciutta e il vino per mio padre, non mancavano mai. Egli mi raccontava che cosa avrebbe fatto se avesse vinto al Totocalcio e io l’ascoltavo meravigliato sulla mia panchetta che ancora conservo. Oppure prendevo la mia scotola di metallo della Zuegg, dove conservavo tutte le lire e le monetine senza gran valore. Le contavo (fin dove sapevo), giocavo con mia madre al mercato, ci facevo le torri e dei disegni geometrici che capivo solo io. Che vita beata!

Poi arrivò, come il lupo cattivo, la scuola elementare. Non che mi piacesse andarci, ma la maestra era più dolce e meno severa delle suora dell’asilo.

Dopo soli sei giorni di scuola, un mattino mi svegliai con la febbre alta e un gran mal di testa. I miei genitori pensarono, forse, ad una scusa per “tagliare” la scuola: invece era vero, la febbre superava i 40 °C. Chiamarono il medico della mutua che diagnosticò una semplice influenza.

Ma mio padre non era convinto e andò a chiamare a pagamento, un giovane dottorino, appena arrivato in paese, che mi visitò accuratamente e mi mise in piedi sul letto: le gambe non mi ressero più e caddi come un sacco vuoto. La diagnosi, appena bisbigliata all’orecchio di mio padre, fu terribile: o meningite o poliomielite e che, comunque, mi dovevano ricoverare immediatamente all’Amedeo di Savoia di Torino. Pareva che il dio della felicità si fosse vendicato, in un silo terribile colpo, della mia troppa gioia.

I medici confermarono: poliomielite. Ero paralizzato dai piedi alla testa e così, per respirare, mi misero in un polmone d’acciaio dove ci rimasi per venti giorni circa. Poi mi trasferirono al “Maria Adelaide” per la fisioterapia e dove, in un ospedale, riuscii persino a prendermi i pidocchi. Lì ci rimasi per sette mesi: ma non era la mia destinazione finale. Anch’io, come un piccolo profugo, venivo sbattuto da un lager all’altro.

La destinazione finale era l’Ospedale Santa Corona di Pietra Ligure (Savona) dove c’era il miglior reparto per la cura della poliomielite d’Europa. Lì feci grandi progressi ma, seppure a rate, ci rimasi otto eterni anni. La prima volta durò un anno intero la degenza.

Il partigiano Armando così iniziò la sua seconda, ben più dura battaglia. Prese dei soldi a prestito per comprarsi un motorino ed ogni domenica, con qualunque tempo, si alzava alle quattro per essere alle sei alla Stazione di Porta Nuova. Lì lasciava il motorino e saliva sul treno per la Liguria che, per le nove, l’avrebbe portato a vedere suo figlio e i progressi che faceva e la sofferenza che ci colpiva insieme. Per farmi sentire meno distante da lui mi insegnò a leggere e a scrivere usando il “Corriere dei Piccoli”: quante cose belle e disperate mi ricorda il sig. Bonaventura… Il lunedì, poi, entrambi ci scrivevamo. Mi regalò anche una radiolina a transistor, una delle prime per sentire le partite quando lui doveva andare via. Io ero (e sono) della Juve e lui, per farmi dispetto tifava per l’Inter, squadra che allora era molto forte e applicava, la sua dura legge del gol…

 

7- Epilogo

“Those who cannot remember the past are condemned to repeat it”

(G. Santayana, The Life of Reason, 1, 12)

Questo, care lettrici e cari lettori, non è un romanzo breve o un racconto lungo.

E’ semplicemente la storia di un uomo che si è conquistato la libertà di farla scrivere. Ed è anche la storia del legame tenero e profondo che univa me con quella persona.

Ma mio padre non è morto davvero, nessuno muore davvero se i suoi ricordi e i suoi valori vivono in un’altra persona. L’importante è averne di ricordi e di valori da trasmettere.

Queste sono le cose che mi diceva, che raccontava ad un bimbo malato per alleviare la sua sofferenza: questo sono io, quei ricordi e quei valori sono diventati me. E spero che un giorno diventino mio figlio e il figlio di mio figlio, ecc.

Fra le cose più preziose che mi ha lasciato in eredità ci sono tre valigie polverose piene di documenti, fra le quali si trova il suo “Diario di guerra” russa e partigiana. Li ho letti: non mi mentiva, non mi ha mai mentito.

Dedico idealmente questo testo, che mai nessuno leggerà, a tutti quelli che credono che la Storia sia iniziata ieri nel tardo pomeriggio o durante l’omonima lezione di una scuola qualunque e a quelle emancipate signore o signorine di rispettabile famiglia che non hanno mai saputo, o voluto sapere, che la libertà di espressione, di parola e di azione è grondante di sangue, sudore e lacrime.

E questa storia non fa parte del passato: sulla retta del tempo è il punto d’inizio del futuro...

 

 

Luglio 2001

Walter Borla

 

 

[1] [2] [3]

 

   
     

 

Copyright 2002-2007 © Associazione Culturale Micene