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Associazione Culturale Micene

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- Il partigiano -

"La storia siamo noi, nessuno si senta escluso" - Francesco De Gregori

 

1- La casa vicina al bosco d'acacie

Non lontano dalla stazione ferroviaria di Nole, per la strada che va a Stura, si trovava una casetta a due piani, in realtà assi malandata, che confinava con un boschetto d’acacie dove i ragazzi e le ragazze della famiglia Borsa che l'abitavano passavano il loro tempo a giocare, tornando a casa puntualmente ricoperti di graffi e di lividi.

Avevano visto tempi migliori quando abitavano in Piazza sopra la casa del nonno panettiere quando la domenica saliva, dai piani bassi un irresistibile profumo di pane appena sfornato. Poi, la vita e la storia di tutti e di ciascuno, avevano voltato loro le spalle e si erano dovuti arrendere ad abitare in quella che era quasi una catapecchia: però c'era il bosco d’acacie…

La famiglia, in origine moderatamente benestante, era composta da Guglielmo, il padre e analista contabile alla Magnoni & Tedeschi di Nole; sua moglie Teresa che, per seguire meglio la famiglia, aveva abbandonato l'insegnamento e suonava divinamente il pianoforte. E poi c'erano i figli. In ordine di età: Carlo, Lidia, Francesco, Rosina, Armando e Mario viventi, ed altri due non sopravvissuti al parto.

Quando il vento e l'ambiente cambiano lo fiuti dall'aria che tira, dagli sguardi della gente, dal loro sottile pettegolio (“E' un socialista, pensa un po’…”), dai rapporti che diventano formali e gelidi. E mio nonno l'aveva ormai capito che la Storia e il Destino avrebbero presto preso a perseguitare lui e la sua famiglia.

Prima, all'improvviso, morì la moglie per setticemia dovuta ad un intervento chirurgico per una banale appendicite (non esistevano ancora gli antibiotici) e questo lo gettò nel più nero sconforto tanto che iniziò a bere quando tornava a casa dal lavoro. Poi la Storia dette il suo contributo alla sua distruzione. Il Fascismo, per far vedere che era ben accettato dagli italiani decise di indire un referendum sul fatto che il Re, dopo la marcia su Roma, avesse fatto bene ad affidare al Cavalier Benito Mussolini l'incarico di formare il governo, un governo fascista naturalmente. E siccome non stava bene che il governo fosse fascista e il Parlamento di un altro colore, sarebbe seguito un "libero referendum" dove chi non era ancora fascista, lo sarebbe ben presto diventato democraticamente convinto dalle squadracce nere che già si andavano formando in ogni più minuscolo paese d'Italia.

Era in una domenica d'Ottobre ancora calda, fragrante e bellissima come il pane che si celebrò questo rito. Davanti alle scuole di Nole (in maniera ben visibile) misero due urne: su una c'era scritto “Sì” e sull'altra “No”. Un incaricato del comune teneva conto di chi votava perché l'astensione equivaleva ad un “no”. C'era molta gente in piazza per vedere come sarebbero andate a finire le cose e sotto le scarpe lo scricchiolio delle foglie ormai secche sembrava dicesse “sì… sì… sì…”. Solo al tribunale interiore di mio nonno Guglielmo quelle stesse foglie, fenomeno curioso, dicevano: “no… no… no…”.

Il brusio salì dalla piazza: un uomo solo aveva osato mettere la scheda nell'urna del “No”.

Fu l'unico di tutto il paese, il “compagno socialista” Guglielmo Borla. Se fosse stato per lui il fascismo non avrebbe trionfato, la dittatura non avrebbe mostrato il suo volto sanguinario e centinaia di migliaia di uomini non sarebbero morti in una guerra dal volto tragicomico.

Un “no”: un semplice, ragionevole e coraggioso no.

Ma, come afferma giustamente Don Abbondio, “il coraggio chi non ce l'ha, non se lo può dare”. Così il fascismo iniziò a spadroneggiare e ad annientare fisicamente o moralmente i suoi avversari.

Si trovò senza un amico, guardato con sospetto come terrorista e, quando qualche regia autorità veniva in visita a Torino (24 km di distanza) si trovava inspiegabilmente in qualche “gattabuia” dei dintorni.

Capì, che era finito sulla “lista nera” e che per lui e la sua famiglia sarebbe stata dura.

Per coerenza, e fra le imprecazioni dei figli, rifiutò anche la tessera del Partito Nazionale Fascista, requisito indispensabile per trovare o conservare un lavoro.

Qualche giorno dopo infatti, il responsabile del personale della Magnoni & Tedeschi lo invitò a passare in contabilità: era stato licenziato con effetto immediato con la grave colpa di antifascismo. Per un po’ di tempo tirò avanti con il denaro della liquidazione, poi qualche piccola azienda (di nascosto) gli dava la contabilità da tenere: ma erano poche lire e qualche centesimo che non bastavano mai per la numerosa famiglia. Così non poterono più permettersi di pagare la pigione della casa sopra il panettiere e trovarono, in affitto più modico , “la casa vicino al bosco delle acacie”.

Il nonno era solo tutto il giorno e ben presto finiva quei lavoretti che, furtivamente, qualcuno gli portavano da fare e poi non gli rimaneva che bere. Bere e piangere, bere e piangere mentre guardava i figli giocare tra le acacie. Le redini della casa vennero prese in mano da mia zia Lidia che si assunse un po’ il ruolo della madre per i fratelli e di quello della cameriera-moglie. Infatti non si sposò mai e dedicò la vita al padre e ai fratelli anche quando questi erano ormai uomini con dei figli già grandi.

 

2- I torsoli dei cavoli

La liquidazione di mio nonno finì presto e non gli rimase che la povera “pensione di guerra” del 1915-18. Fu allora che la povertà si trasformò in qualcosa di più spaventoso e duro da sopportare: la fame. La famiglia era numerosa e, come sempre, ciascuno trovò il suo ruolo per tenerla unita e mandarla avanti. Lidia divenne la vera e propria organizzatrice e direttrice della “caserma”, visto che mio nonno continuava (nella sua solitudine eterna a bere e a piangere). Gli rimaneva un titolo puramente onorifico e burocratico di “capofamiglia” e, come insegne massime del potere, le chiavi di casa, il cui portone veniva chiuso immancabilmente alle 22. Qualche volta, specialmente Carlo arrivava tardi dal bar dove giocava al biliardo (la sua vera, unica, passione) ma dopo aver bussato, vanamente qualche volta, doveva accontentarsi di dormire sugli scalini. Alle sei di mattina, pietosamente, mia zia gli portava il baracchino: lui inforcava la sua bici e andava a lavorare alle Ferriere della Fiat (oggi Teksid).

Gli altri due fratelli (Francesco ed Armando) erano ancora troppo giovani per prendere la tessera del Fascio e cercare un lavoro. Ma anche loro si specializzarono nella “maroda”, che vuol dire cercare, recuperare, rubacchiare, prendere dai prati, campi, boschi e, perché no?, anche dall’immondizia tutto quello che poteva essere ancora buono per essere usato. Ci avrebbe, poi, pensato mia zia Lidia a farne un uso commestibile ed ancora accettabile. Anche i torsoli dei cavoli, adeguatamente puliti e mondati, venivano buoni per fare un minestrone assai apprezzato in famiglia. I rami secchi o quelli ancora verdi che venivano tagliati (che importava?) venivano buoni per la stufa che riscaldava, del resto, solo il pian terreno della casa. Le stanze, tutte al piano superiore, erano in inverno completamente gelate e si dormiva sommersi da coperte e trapunte e ci si addormentava, nelle chiare e gelide notti di febbraio, sperando e contando le stelle.

Un episodio della “maroda” mi rimase sempre impresso: me lo raccontava mio padre per farmi soffrire di meno nel polmone d’acciaio. In un campo vicino a casa c’era un prato con degli alberi carichi di gonfie e provocatoriamente succose susine. Un giorno Franco e Armando partirono per la “spedizione”, armati di un solo bastone. Franco, che era il più agile, salì sull’albero e con il bastone staccava le susine. Armando da terra, faceva il palo e raccoglieva quelle che non ingurgitava subito per lenire i morsi della fame. Tutto andò sempre bene; ma un giorno, forse mio padre era distratto, arrivò il proprietario delle susine roteando furioso un nodoso bastone da vaccaro. Armando fece notare che loro raccoglievano solo i frutti caduti per terra e che nessun altro prendeva, cosa permessa dalla legge. A quelle parole il contadino si calmò un poco e già stava per andarsene a casa, quando intravide Franco sull’albero! Apriti cielo! “Ah è così che raccogliete da terra le mie susine, eh brutti disgraziati!!!!”. Ai due poverini non rimase che scappare perdendo dalle tasche, dalle maglie le susine “raccolte per terra”, ma non furono mai raggiunti dal proprietario che si limitò, ansimando, a maledirli da lontano.

La povertà, oltre ad aguzzare l’ingegno, pare che doni (se minimamente sostenuta dal cibo) un agilità prodigiosa e non comune. Almeno così sosteneva mio padre, mentre “le susine marciscono sugli alberi e nessuno le raccoglie più”, sospirava.

Questa agilità li aiutava molto nella loro passione sportiva: giocare “a football” nel Nole F.C. Mio padre ricopriva il ruolo di portiere e suo fratello Carlo era il suo “stopper”: colui che doveva marcare la punta avversaria perché era dotato di maggiore grinta e cattiveria. Dicono che mio padre fosse davvero bravo e lo paragonavano al mitico astro nascente dello sport mondiale: il portiere sovietico Lev Jascin, detto anche “il ragno nero”. Fece anche qualche prova per il Torino. Venne anche arruolato fra i ragazzi, ma l’allenamento tre volte alla settimana, acquistarsi tutta l’attrezzatura e pagarsi il viaggio in treno erano cose fuori dal mondo e, purtroppo, dalle sue tasche dalle quali, chissà come, a volte continuarono ad uscire qualche susina o qualche mela un po’ bacata.

Come sempre si chiudeva un sogno e si apriva la realtà.

I due fratelli, Armando e Franco, litigando furiosamente con mio nonno, presero la tessera del PNF ed ebbero così l’alto onore di poter lavorare e di fare i muratori. Anzi, Franco faceva il muratore perché mio padre più giovane e più esile, lo mandavano su e giù per i ponteggi con il “bugliolo” pieno di calce viva. Un giorno, a causa di un movimento incauto, la calce trabordò e gli lasciò sulla spalla sinistra una cicatrice che mi colpiva sempre quando lo medicavo dopo l’intervento chirurgico (asportazione di un tumore maligno al polmone destro). Voleva essere medicato solo da me e i medici si complimentarono per la velocità e la perfezione con la quale l’altra lunga ferita si cicatrizzò così bene e così in fretta

La situazione della famiglia Borla era, ora, un po’ migliorata: Carlo, Armando e Franco lavoravano e consegnavano tutto il loro magro stipendio al padre che ne girava una parte a mia zia quando la famiglia aveva qualche piccola necessità. Ma il giorno che mio zio Franco chiese direttamente a mio nonno i soldi per farsi la divisa di Giovane Italiano, s’ebbe, per tutta risposta, due sonori schiaffoni che lo incollarono al muro. Mai tanta violenza fu più sacrosanta, qualunque cosa ne dica (anche dopo il suo pentimento) il dott. Spock.

La domenica era il giorno rituale in casa Borla e il menù rimase fisso per anni e anni: bollito da poche lire contornato da una copiosa quantità di grasso (lo rendeva più morbido e faceva il brodo buono per tutta la settimana…) e risotto (tradizione più piemontese e meno costosa della pastasciutta). Altro non c’era: quello era il menù del “dì di festa”.

Ma, man mano che si avvicinavano le 14, le sedie dei miei zii sembravano fatte di spine.

Allora, con gesto solenne e pontificale, mio nonno tirava fuori dal suo panciotto tre “aquilotti” (monete da 5 lire di allora) che avevano un certo pregio e potere d’acquisto. Grazie a quelli uscivano come razzi dalla casa a passare il pomeriggio chi a giocare a bocce, chi a carte e chi al biliardo. Mio nonno andava a dormire ubriaco, del vino bevuto a pranzo, fino a cena.

Mia zia, come nella favola di Cenerentola, sparecchiava e dopo ascoltava la radio o scriveva lettere di finti amori a soldati i cui nomi ed indirizzi recuperava da un settimanale che puntualmente acquistava. Ma quando la cosa pareva diventare seria e il pretendente diceva che sarebbe venuto a trovarla e le chiedeva l’indirizzo, lei lasciava cadere la corrispondenza. Forse a lei bastava un sogno e di maschi a cui badare ne aveva sin troppi.

 

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