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- La fabbrica novgorodese -
Scritto in occasione del prossimo 1150° anniversario della fondazione di Novgorod la Grande, la più antica repubblica europea, che si celebrerà l’anno prossimo 2009

 

Il primo stato russo, la cosiddetta Rus’ di Kiev, era strutturato principalmente su due città: Novgorod la Grande a Nord e Kiev, la capitale, a Sud.
I disegni kieviani però non prevedevano per Novgorod un ruolo politicamente concorrenziale, ma soltanto che fosse fabbrica e deposito delle merci che la “capitale” del sud richiedeva per esportare e per questi motivi gli “imprenditori” locali dovettero adeguarsi tecnicamente a queste esigenze senza indugi già dalla seconda metà del IX sec. d. C.
Certo! Qualche autorizzazione per attività industriali e commerciali non legate a Kiev fu prevista, ad esempio collaborare per forniture con Birka in Svezia… purché restasse un traffico provvisorio dei prodotti orientali come seta e spezie! Tutto il resto doveva passare solo per Kiev. Erano proprio questi gli accordi che Olga di Kiev aveva rafforzato con i bojari novgorodesi nel 945. La situazione però non era prevista svilupparsi così bene come avvenne a partire dal 971 dopo la morte di Svjatoslav (figlio di Olga), e quindi adesso era logico che Novgorod avrebbe voluto condurre gli affari senza le ingerenze che Kiev avanzava sempre più insistentemente. Sarà questa una lotta di secoli che non s’interromperà neppure con l’invasione dei Tatari e la caduta di Kiev nel 1240, né con le pretese di Mosca sistematicamente rinnovate fino alla fine del XV sec.!

Come sappiamo dall’archeologia, l’impianto originario di Novgorod partiva da tre abitati separati, forse frequentati soltanto durante la stagione invernale: due sulla Riva Sinistra (la Riva di Santa Sofia) e uno sulla Riva Destra (la Riva del Mercato), e a parte (extra moenia) la Cittadella di Rjùrik. Quando si era deciso di agglomerarli in una sola città, cristallizzando l’autonomia di ogni etnia in veri e propri centri amministrativi (konèc) indipendenti, si tracciarono sulla Riva Sinistra le aree per il Cantone (traduciamo così per meglio intenderci la parola russa konèc) Nerevskii, ossia abitato dagli ugro-finni fra cui i Nérevi, poi quella per il Cantone Ljudin, nel quale risiedeva l’etnia balto-slava dei Krivici, e infine sulla Riva Destra quella per lo Slavenskii Holm, chiaramente il Cantone degli Sloveni. Aggiungiamo poi che il Cantone Ljudin doveva essere a maggioranza finnica giacché ci sembra di riconoscere nella denominazione niente altro che il finnico Lud, ossia Radura sacra recintata in un bosco di larici. Un recinto sacro tipico come quello che ancora si trovava intatto in Estonia nel 1928 presso Ilmegerve. Probabilmente i Krivici o avevano fatto spostare con le buone maniere i Finni sulla riva opposta o li avevano assimilati addirittura…

Ci torna in mente il dubbio di sopra: se non erano dei veri abitati e, come la Cittadella di Rjùrik, funzionavano soltanto nella stagione dei trasporti verso il sud, i Cantoni attuali avevano forse origine dai depositi/officine artigianali (con i santuari degli dèi etnici rispettivi) dove si lavoravano gli articoli prima di metterli in vendita? Se così fosse, spiegheremmo ancor meglio la presenza della cittadina di Rusa, sull’altra sponda del lago Ilmen’, che si “ripopolava” quando c’erano i lavori agricoli.
Giacché dalle ricerche archeologiche fatte, per chilometri e chilometri in tutte le direzioni tutt’intorno non ci sono altri agglomerati abitativi o fortezze fino a tutto il XV sec., ciò non può che suggerirci ancora una cosa: la sacralità dei boschi intorno al lago Ilmen’ era tale che nessuna etnia voleva privarsene! Di qui la necessità dell’esistenza di un unico e solitario nucleo abitato a governo e a difesa dell’enorme territorio!

Per comodità d’esposizione non aspetteremo però che la città acquisisca il suo aspetto definitivo (in questo X sec. era ancora in pieno fermento di sviluppo), ma la immagineremo già quando funzionava a pieno ritmo sia dal punto di vista industriale sia dal punto di vista politico, sottolineando che è soltanto dopo l’introduzione forzata del Cristianesimo che la lotta per l’indipendenza si acutizzerà e i bojari novgorodesi (l’unica élite al potere), mediando su tutti i piani contro Kiev, giungeranno ad una loro vera e propria caratterizzazione di classe. Ad ogni buon conto mai prima del XII sec. in nessun’altra località slava si era visto questo tipo di “sacro signore”, cioè il bojaro (o bojardo, imitando la dicitura francese).
È persino interessante notare che la parola russa bojarin è di origine bulgara, dove suonava boljarin e significava potentato o primate. Forse nascondeva la radice slava *bol-, ossia più grande, maggiore, o forse, a causa dell’origine della Bulgaria del Danubio da quella dell’Oka turcofona, era una qualche funzione o ceto sociale peculiare delle steppe. La stranezza è che sul Danubio i bojari erano i proprietari terrieri che sostenevano l’Imperatore (Zar’ o Khan) bulgaro, mentre fra gli Slavi orientali non possedevano la terra (uno stato che durò molto a lungo). Ciò era d’altronde impossibile nelle Terre Russe del Nord poiché tutto il paese con la foresta e gli animali (compreso l’uomo) apparteneva agli dèi, anzi esclusivamente alla Madre Umida Terra. Ai bojari, chissà per quale motivo antichissimo e occulto, gli dèi avevano concesso il diritto di usufrutto eterno del territorio e così, chiunque lavorasse o facesse la raccolta nella foresta o andasse a caccia o a pesca, poteva farlo purché prevedesse di mettere da parte un surplus per i bojari novgorodesi! Costoro devono vivere bene perché, quali rappresentanti degli dèi, soltanto il loro benessere può assicurare il benessere a tutti. Una volta accettato ciò, possiamo capire, ancora una volta, che il simbolo visibile di questa struttura di potere è il recinto sacro, ossia Novgorod la Grande!

Naturalmente Novgorod batte di un cuore proprio che si trova in un luogo ancor più sacro del resto cittadino. Qui abita il capo-città (stàrscina e poi posàdnik) che funge da Gran Sacerdote e da custode del patto eterno fra le diverse genti che qui si sono messe insieme. In funzione di ciò era costume in quel periodo affidare i figli delle famiglie componenti le etnie della nuova comunità a questo personaggio che li educava e li proteggeva! I giovani però erano in verità in stato di ostaggio agli dèi quali pegni viventi di fedeltà al patto. Insomma in una specie di prigionia… Questo luogo-prigione dunque, ben protetto da una cinta di mura di legno sacro di quercia, è il Detìnez che noi abbiamo tradotto appunto Convitto dei Bambini (in russo bambini si dice deti) e non Cremlino, al contrario di quanto si legge talvolta presso altri autori!
Il Detìnez naturalmente è dedicato alla Gran Madre Terra, la quale, all’avvento del Cristianesimo, dovette cedere il posto (con la più grande logicità) alla Santa Sapienza Divina Cristiana ossia a Santa Sofia, mentre il posto del Gran Sacerdote se lo prendeva (con la forza) l’Arcivescovo e mandava liberi i ragazzi “detenuti”. Vediamo già una levata di scudi sul nostro modo di ragionare nei termini usati fin qui, ma ci chiediamo: perché nel Medioevo, com’è raccontato in Occidente, è possibile esporre gli argomenti tranquillamente attraverso la chiave cristiano-cattolica e qui nel Grande Nord, dove sono i Paganesimi ad essere in auge, non si può raccontare in chiave religiosa pagana?
Novgorod, diciamo noi, deve essere vista come un grande tempio in una situazione geografica incentrata su tre condizioni sfavorevoli da un certo punto di vista: l’isolamento, il clima inclemente per le attività agricole e la bassissima densità di popolazione, ma dall’altro punto di vista è e rimane terra sacra! E perché meravigliarci? Roma non era forse qualcosa di simile?
Non dovremmo dimenticare che proprio a causa di questo Paganesimo del Nord scoppiò la malaugurata campagna cristiano-cattolica per la distruzione dei templi pagani individuati di solito nei querceti (ma anche faggeti etc.). La foresta europea fu costretta a ritirarsi gradualmente o su per le montagne francesi italiane e spagnole o in pianura fino alla riva destra dell’Elba, più o meno dove cominciava l’Europa slava, perché considerata un ricettacolo di diavolerie pagane. La politica distruttiva cristiana causò in pratica lo spostamento dei centri di approvvigionamento europei e l’attenzione dei mercanti alla ricerca di materie prime proprio verso quelle terre che rimanevano ancora coperte di un fitto manto verde. In special modo le terre novgorodesi (ma anche di altre regioni nordiche), allora credute disabitate, a questo punto si trovarono letteralmente assalite dalla frenesia di trafficare con i prodotti ad alto valore aggiunto ricavabili dalla foresta. Ed ecco qui una ragione fondamentale per un’ulteriore espansione della migrazione slava verso il nordest estremo intorno al IX sec., addirittura fino al così chiamato Mar dell’Oscurità o Mar Glaciale Artico! Ecco ancora la necessità del coinvolgimento di tutte le etnie che s’incontrarono qui per prime (e di quelle attratte da un futuro radioso di facile ricchezza, ma arrivate dopo) in un’unione in difesa delle proprie credenze e delle rispettive capacità di riservarsi la gestione del baratto degli articoli ottenibili su quella terra contro i prodotti degli stranieri del Meridione.

Si trattava ora di attirare la gente per popolare la città nuova. Dato che Novgorod come denominazione è spiegabile con il fatto che la città apparteneva a diverse genti e il suo nome non poteva riferirsi a nessuna di esse, chi avrebbe osato abitare insieme con i sacri bojari? Dobbiamo dire che l’inurbamento fu e restò uno dei problemi eterni di Novgorod poiché periodicamente, nella sua storia, le emigrazioni dalla città furono più numerose che le immigrazioni dall’hinterland…
D’altronde, a parte questi problemi, non c’era scelta! Occorreva immettersi nei circuiti mercantili internazionali, per evitare la colonizzazione da parte di altre potenze baltiche o locali che andavano risvegliando le proprie avidità e minacciavano le radici religiose locali.

Novgorod così diventa un grande centro industriale unico nel suo genere, non confrontabile con le sue antesignane baltiche Birka, Haithabu o la fantomatica Rerik in Pomerania, e dal piano della città (il più perfetto è quello del XIII sec.) possiamo vedere come i bojari e gli altri abitanti si erano organizzati per far fronte ai grandi affari.

La planimetria generale o Piano Regolatore Cittadino parte dai crocicchi, che sono luoghi sacri e una volta fissati non si cambiano più. Questi dividono i terreni da occupare e naturalmente il più importante è proprio quello dove si trova il Detìnez. Da qui partiranno delle linee immaginarie che divideranno l’enorme territorio circostante in grandissimi spicchi con la punta (konéc) in ognuno dei Cantoni (che dai tre originari successivamente passeranno a cinque). Le fabbriche? Sono le stesse abitazioni padronali disposte giusto lungo i crocicchi! Anzi! Le famose cascine (usad’by), o i nidi (gnjòzdy) così chiamati, sparsi ordinatamente all’interno della seconda cinta di mura intorno al Detìnez fanno da casa e da bottega. Gli operai? Ex contadini che per varie cause si trovano in debito col proprio bojaro e che rifondono il dovuto col loro lavoro oppure chiunque sia disposto ad offrire la propria arte dietro compenso. Certo! Andare a lavorare a Novgorod significa tagliare i ponti con i propri luoghi d’origine, visto l’isolamento geografico, ma l’usad’ba non offre solo un’occupazione, bensì ogni altro tipo di confort occorrente alla vita normale di quei tempi. S’instaura così il Contratto di Lavoro del tipo Holopstvo, ossia una specie di schiavitù a termine (che poi diventava praticamente lunghissima e talvolta durava fino alla morte) in cui il holop in cambio di vitto e alloggio offriva le sue abilità al proprio datore di lavoro. D’altronde qui non si usava il denaro metallico per pagare, ma si ricorse al baratto (persino nelle transazioni commerciali di alto bordo) fino al XV sec. Per queste ragioni un salario non era immaginabile né era concepibile un lavoratore “volante” come il commuter di oggi che frequentasse il luogo di lavoro fino ad una certa ora e poi regolarmente tornasse a casa propria lasciando l’usad’ba!
Addirittura l’usad’ba offriva persino una moglie e il poter educare dei bambini. Anzi! Dare soluzione a questi problemi era per il bojaro una specie d’impegno personale per legare a sé gli artigiani holopy! Né dobbiamo dimenticare che non erano soltanto uomini ad essere impiegati nell’usad’ba, giacché schiere di giovani donne erano presenti a lavorare nelle stesse condizioni di “schiavitù” nelle industrie più diffuse del Medioevo: la filatura, la tessitura e la sartoria! Insomma, legami famigliari fra i holopy (femmine e maschi) erano assolutamente favoriti e benvenuti.
Questa era la linea politica abbastanza patriarcale lungo la quale l’usad’ba era organizzata.

In un’area mediamente di ca. un migliaio di metri quadri su una pianta trapezoidale essa ospita la costruzione maggiore, ossia la casa a più piani in posizione leggermente arretrata rispetto all’entrata, dove il bojaro-padrone abita con la famiglia e dove dal primo piano, dall’unico balcone in posizione panoramica, controlla che tutte le attività si svolgano come si deve. Ci sono poi le case dei lavoratori più piccole e distribuite lungo il lato interno della palizzata. C’è una banja, ossia il bagno ad aria secca tipico russo che, simile alla sauna finlandese, serve per lavarsi e purificare corpo e spirito, curando molte malattie. C’è un granaio, un forno per il pane etc. Il bojaro si è fatto costruire persino un tempietto per i propri antenati, così come permetterà che i lavoranti abbiano un angolo della casa allo stesso scopo.
Le donne, mogli e servette principalmente, si occupano della coltivazione degli orti interni, oltre che dell’allevamento degli animali da cortile. Né possiamo escludere che facessero da aiutanti a padri o mariti nei lavori più tradizionalmente maschili come… nella fucina o nella fusione dei metalli o nella carpenteria pesante! Gestiscono persino le stalle per i cavalli e per i cani da tiro. Il bojaro infatti nei tempi di minore attività (d’inverno) si reca con la sua carrozza/slitta in campagna (il suo cocchiere è però un uomo) per riposarsi e per controllare che i contadini lavorino e lo vengano ad omaggiare. Soprattutto va personalmente a caricare le pellicce e gli altri articoli foresticoli raccolti o per reclutare nuovo personale per l’usad’ba
Un recinto-palizzata circonda tutta la fattoria più o meno come una qualsiasi cascina o masseria del secolo scorso perché ogni usad’ba è un microcosmo a sé, separato dall’altra per mezzo di una strada divisoria comune che funge da via d’accesso (gat’) per i carri e per le persone ed è “lastricata” di tronchi di legno affiancati, con le commessure riempite con l’argilla secondo una sperimentata tecnica slava.
Una curiosità notata dall’archeologo Janin è che le usad’by non mutarono di superficie e di forma per secoli. Infatti negli scavi le pavimentazioni dei gati, rifatte più o meno ogni 15 anni a spese dei bojari latistanti, si sovrappongono dal X al XIV sec. rigidamente lungo la verticale senza alcun mutamento dimensionale! Noi ormai sappiamo bene che deve essere così perché abbiamo detto che le usad’by sono distribuite intorno ad un incrocio che è sacro e immodificabile.
In questi veri e propri opifici, siccome la produzione che più “tirava” era la preparazione delle pellicce, questa doveva essere l’attività preferita sulla quale il bojaro titolare più premeva e di cui portava vanto quando andava alla ricerca di clienti.

Qualche altra attività industriale naturalmente rimaneva fuori dell’usad’ba direttamente affidata agli artigiani liberi o ai mercanti stranieri. Così c’erano vari quartierini sulla Riva del Commercio o sulla Riva di Santa Sofia, dove gli specialisti avevano la propria casa e officina separata dalle usad’by bojare, e qui svolgevano il proprio lavoro sopraffino su commissione. Di solito erano i bojari gli unici che trattavano con l’estero, ma gli artigiani liberi potevano gestire gli affari anche in modo indipendente, ad esempio quando riconfezionavano oggetti e articoli esotici (la seta, le lane, le spezie etc.) per la rivendita.
Tutte le transazioni commerciali si fanno in Piazza (il cosiddetto Torg) sulla Riva del Mercato e raramente si vedono stranieri visitare le case e i depositi di merci privati dei bojari nelle usad’by. La compra-vendita di solito è fatta su campione. In caso di liti poi c’è un’autorità apposita per dirimerle, costantemente presente (e armata) sulla Piazza del Mercato.

Non ci sono molti pericoli di furti notturni a Novgorod poiché le porte delle mura delle due rive si chiudono ad una certa ora della sera e si riaprono ad un’altra dell’indomani mattina e quindi nessun estraneo potrebbe penetrare per rubare o un ladro fuggirsene, salvo sommosse, pestilenze o vendette! D’altronde, sebbene tutti sappiano che i bojari custodiscono in casa i preziosi e il danaro e che rubare è difficile, c’è sempre qualche grassatore improvvisato che causa confusione nottetempo appiccando un incendio sulla palizzata dell’usad’ba per penetrarvi e saccheggiare a piacere. Attenzione però: il “mestiere di piromane” è punito con la morte. Il più temuto nemico a Novgorod è infatti il fuoco. Qui tutto è fatto di legno e il fuoco attizzato in un qualsiasi punto della città, se c’è vento favorevole, si propaga velocemente e distrugge senza pietà. Altre mattane quasi periodiche sono invece le inondazioni in seguito al livello variabile delle acque del lago a primavera (maggio). Certo! Poi tutto si ricostruisce. I carpentieri ci sono e di legno ce n’è in abbondanza.

Janin ha individuato ben 150 differenti attività artigianali a Novgorod e proprio la carpenteria del legno è quella più affermata (tanto che poi darà origine ad un proprio Cantone detto dei Falegnami sulla Riva del Mercato). Questo è un indizio in più che prova che non si produceva esclusivamente per l’esportazione, ma che c’era un mercato interno elegante ed esigente. Infatti gli oggetti in legno ritrovati dagli scavi sono di solito suppellettili fatte di legno per l’economia domestica locale e sono di varie forme e misure. I contenitori di fluidi, addirittura, sono standardizzati su misure ben precise.

Fiorente era un’industria lignea particolare: quella dei pettini! Il legno usato però non è di qui, ma è il bosso importato dal Caucaso, ossia dalla zona sotto controllo cazaro. Non sappiamo se questa produzione fosse la conseguente diversificazione della lavorazione delle pellicce, quasi come estensione alle esigenze cosmetiche delle figlie e delle mogli, ma sicuramente era molto lucrosa (i pettini costavano moltissimo) e quando importare il legno di bosso non fu più possibile durante l’invasione dei Tatari la produzione praticamente cessò, con gran disdoro delle eleganti signore novgorodesi… che dovettero farseli venire dall’estero!

Il bojaro comunque non è un avido padrone e basta. Impersona la figura paterna non soltanto per i propri stretti parenti, ma anche per gli ospiti-lavoratori! In questa veste si preoccupa infatti di educare tutti i ragazzi del suo nido, figli propri e figli dei suoi holopy, per formare degli uomini di sua assoluta fiducia. Ad esempio, tali saranno i mercanti suoi rappresentanti al mercato o al porto o quelli itineranti che manderà in viaggio con la merce in terre sconosciute e lontane evitando di rivolgersi a persone estranee. Della competenza di costoro (sono gli otroki) il bojaro è sicuro poiché li ha istruiti di persona e, soprattutto poi, li vedrà tornare sempre con i guadagni fatti, visto che, se sono holopy, ne trattiene presso di sé moglie e figli o genitori e fratelli. La cultura dunque regnerà a Novgorod proprio per tutti questi motivi e vediamo che la città sarà la più colta del Nord europeo, poiché qui tutti sanno leggere scrivere e far di conto. Ogni usad’ba avrà una scuola per maschi e femmine (che si trasferirà nella chiesa parrocchiale con l’avvento del Cristianesimo) poiché, se si fosse analfabeti, non si potrebbe esercitare la mercatura, che è l’attività libera più agognata da ogni novgorodese.
Il bojaro si incarica di persona degli approvvigionamenti di derrate alimentari facendole arrivare dalle proprie campagne o, quando c’è penuria, le andrà a comprare fuori e tratterà (raramente si servirà di un plenipotenziario) i prezzi da pagare sulle partite di grano e di segala, orzo e miglio per far pane e focacce direttamente. Troverà quei cereali nei depositi d’ammasso che Novgorod si costruirà più a sud in vicinanza delle zone di produzione. Uno di questi sarà Mercato Nuovo (in russo Torzhòk) e un altro Volok sul Fiume Lama (in russo Volok Lamskii).

Altro prodotto alimentare famoso che richiedeva una lavorazione industriale era il pesce secco e quello salato, questo molto più caro per il costo del sale importato dalla Guascogna, che serviva agli equipaggi naviganti ed era tutto di acqua dolce naturalmente, come il salmone (Kiev invece pescava nel Dnepr persino il grossissimo storione col suo caviale!).
E se ci sono problemi più complicati per approvvigionarsi, il bojaro è pronto a finanziare persino la pirateria creando i famosi usc’kuiniki lungo il Volga, che imperversarono per decenni contro Mosca!

L’usad’ba produce, come abbiamo visto, per il mercato interno e, date le dimensioni della città che raggiunse ben 50 mila abitanti nel XIV sec. prima di essere colpita dalla peste nel 1351, il consumo era davvero enorme.

Una grossa produzione è l’abbigliamento, dai livelli qualitativi altissimi. Se ammiriamo i vestiti e gli ornamenti sull’iconografia novgorodese o su quella degli stranieri che, in visita nelle Terre Russe, hanno disegnato e descritto i mercanti e le famiglie dei bojari, c’è davvero da restare ammirati. Con l’avvento del Cristianesimo questo mercato si allargherà e si lavorerà anche per i Monasteri (ce ne saranno oltre 50 intorno alla città, fra grandi e piccoli), specialmente nel campo della sartoria e della terracotta (il suolo è ricco di argilla). Addirittura qualche ecclesiastico intraprendente (ciò è permesso) metterà su una fabbrica di oggetti sacri, soprattutto di icone e croci, come un certo Olisei Grecin…

Naturalmente l’industria che “tira” di più resta sempre quella che produce semifiniti per l’estero. Sebbene l’elenco dei relativi prodotti sia molto breve, il valore di ognuno è molto alto e la domanda in questo periodo è molto sostenuta.

Cominciamo dagli schiavi! Naturalmente si parla non dei prigionieri di guerra né dei delinquenti condannati ai lavori forzati e neppure di coloro che si vendono per sbarcare il lunario, ma di quelli che gli Arabi importano da qualche secolo da queste aree del Nord per il loro fabbisogno domestico e che noi (sebbene sappiamo che la parola araba saqaliba non è altro che la trascrizione del greco Sklavenos, ossia Slavo) useremo per intenderci meglio sugli schiavi. Aggiungiamo che alla fin fine i saqaliba non sono che domestici cresciuti in casa del padrone acquirente dalla tenera età e adibiti a qualsiasi servizio, compreso quello sessuale. I ragazzi addirittura vengono “forniti” già evirati, gli eunuchi! Qui il discorso però è molto più complicato perché il mercato degli schiavi era specialmente gestito da Polozk e dintorni, e dunque rimandiamo il nostro lettore alla letteratura in bibliografia. Sottolineiamo che dopo l’introduzione del Cristianesimo questo commercio comunque decadde…

Poi ci sono le pellicce dei piccoli animali della foresta: zibellini, ermellini, scoiattoli, castori, volpi, martore etc. (ne abbiamo accennato), ma anche di carnivori più grossi come linci e lupi – eccetto l’orso che è invece un animale sacro – e per queste ragioni, data la loro importanza (dominarono il commercio internazionale per secoli… e ancora oggi!), è bene parlarne un po’ più a lungo, prima di rimandare il nostro lettore a studi più specifici.
Gli animali di solito sono catturati con il manto d’inverno con trappole speciali per non rovinarne la pelliccia. L’animaletto ancora vivo, poi liberato, era ucciso e scorticato accuratamente e la carne o era abbandonata ai carnivori della foresta (come ringraziamento agli spiriti della foresta) oppure talvolta consumata, se gradita al palato e se permessa dai tabù del cacciatore. Le pelli venivano selezionate in ventri e dorsi in quanto i ventri hanno un pelo più delicato e sono meno colorati rispetto ai dorsi, con pelo più lungo e più ruvido. Venivano poi messe a macerare in un bagno di ceneri di corteccia di quercia ricca di tannino. Poi erano lavate e le donne sfregandole o raschiandole delicatamente allontanavano ogni resto di carne o di grasso e le pulivano bene di ogni macchia di sangue eventualmente rimasta. Ora bisognava ammorbidirle e questo era una lavoro noioso e lungo fatto con le spatole e  con le mani. Dopodiché venivano pettinate e ripulite e infine legate insieme e tenute nel sale onde evitare che insetti e muffe le danneggiassero, in botti calibrate. Il numero di pelli (e quindi di animali catturati negli anni di grandi vendite) mandate all’estero doveva essere impressionante già a partire dal Trattato che Olga concluse con Costantinopoli, ma purtroppo non abbiamo dati certi prima del XIV sec. e possiamo fare solo delle illazioni, sebbene dovessero essere decine di migliaia di pezzi alla volta. Al contrario è importante accennare all’alto valore ad esse attribuito dai compratori finali, sempre riferendoci a dati del XIV sec.
Le pelli di scoiattolo, ad esempio, erano classificate dall’Hansa in tre qualità: la prima o schonewerke, la seconda o anigen e la terza o luschwerke e i prezzi di vendita (fine del XIV sec. per 1000 pezzi) erano rispettivamente 8,9, 8 e 7,1 rubli novgorodesi. Se si tiene presente che un rublo era più o meno 120 g d’argento e che una piccola proprietà immobiliare costava all’incirca 25 rubli, si ha un’idea molto approssimativa, ma emblematica, del valore delle pelli di scoiattolo sia per un abitante del territorio intorno a Novgorod, che le usava per pagare il proprio “tributo” al bojaro di turno, sia per il compratore finale che pagava il prezzo sopradetto moltiplicato anche 30 volte, in seguito all’aggiunta dei trasporti, dei pedaggi etc. etc. L’arabo Masudi (X sec.) cita un prezzo per una pelle di volpe nera di ca. 100 dinar ovvero 100 nomismi, l’equivalente di 10 schiavi saqaliba.
Ciò non faceva specie, se si tien presente che l’acquirente era un gran signore o persino un re o il Papa di Roma o un gran notabile delle corti musulmane. Costoro non badano a spese nel campo del vestire dove le mode imperversano. Certo, non era roba da comprare al mercato della Champagne o a quello di Bruges perché le consegne erano fatte direttamente a casa dell’acquirente che le aveva prenotate mesi prima.
Ai prelati della Chiesa, ad esempio, non poteva mancare l’ermellino, che appariva nelle loro mantelle e nei sontuosi copricapi (basta guardare i ritratti o le miniature del tempo). La pelliccia però rimaneva all’interno, a contatto col corpo di chi l’indossava, e la si rivoltava verso l’esterno solo lungo l’orlo, per far vedere che c’era e questo orlo era un segno di distinzione! In Inghilterra addirittura le pellicce furono vietate per la vendita a chiunque non fosse il re o i suoi più stretti famigliari!
Notiamo che con grande accortezza gli intermediari di questi articoli (più tardi entreranno in questo affare genovesi e veneziani) vendevano pelli intere, senza tollerare alcuna modifica, ma badando alla qualità. Le pelli erano esaminate minuziosamente alla consegna, proprio perché l’artigiano-sarto doveva sceglierle per il capo di vestiario giusto e aveva il giudizio finale su di esse (per il pagamento). Inoltre voleva essere libero di inventare accostamenti e colori senza condizionamenti e senza temere di poter essere imitato, benché il mercante incaricato fosse sempre una persona di fiducia e si poteva esser sicuri che non avrebbe svelato niente a nessuno di quel che vedeva.
Gran numero, naturalmente, ne andavano nelle confezioni degli abiti invernali! Tuttavia una striscetta di ermellino o di zibellino lungo un abito qualsiasi di un notabile o di una signora abbiente era immancabile! Insomma Eleganza, nel Medioevo cristiano europeo che si avvia verso il Rinascimento grazie anche all’importazione dei prodotti novgorodesi, rappresentava bene il suo significato etimologico e cioè poter essere diversi dagli altri attraverso un abito unico ed esclusivo! Non è forse così ancora oggi nelle serate di gala “borghesi” o presso le divise militari o con le coloratissime e anacronistiche uniformi della Chiesa in cui si ostentano pellicce di pregio ancora di origine russa, comprate magari alla Borsa di San Pietroburgo?

E veniamo ad un’altra importante industria di questa parte d’Europa: la lavorazione della cera che avveniva insieme a quella del miele, naturalmente. La cera diventò subito un cespite importante e nel XII sec. la richiesta cominciò ad aumentare a vista d’occhio. Le ragioni della crescita della domanda sono già intuibili ad una semplice riflessione giacché la cera serviva a fare… candele! Il Medioevo (ma anche dopo, fino al XVIII-XIX) è stata un’epoca veramente buia a causa della mancanza o della carenza della luce artificiale, la cui necessità, si badi bene, non era per la gente meno abbiente, ma per l’élite. È già comprensibile a quali ambienti fossero destinate, se pensiamo alle chiese e alle case dei ricchi da illuminare. I conti qui sono presto fatti. Ad esempio milioni (letteralmente!) di candele erano bruciate per illuminare la più grande chiesa della Cristianità, Santa Sofia di Costantinopoli. Né ce ne volevano meno per le sale dei palazzi reali. E le candele costavano! Avevano un gran vantaggio: se la cera era di buona qualità non puzzavano e davano una bella luce costante e, se erano fatte bene, non producevano neppure tanta fuliggine.
D’altronde, e ciò dobbiamo notarlo subito, la luce era per chi studiava scriveva e copiava negli scriptoria, per chi eseguiva riti religiosi e per chi disponeva di tantissimo tempo libero per leggere giocare a scacchi o a tric-trac o intrattenere ospiti in pranzi e banchetti. Ogni altra attività “non d’élite” poteva benissimo aspettare il ritorno della luce del sole!

E i poveri e i meno abbienti? Nella Rus’ medievale contadina si usavano i bastoncini resinosi ricavati dalla betulla oppure ci si accontentava di lampade di sego o del riverbero della stufa russa (pec’ka) sempre accesa!


In seguito, quando si cominciarono a costruire campane in bronzo (alla fine del Medioevo s’aggiunse la costruzione dei cannoni) e si adottò il famoso processo “a cera persa”, di cera se ne consumò sempre di più…

Per tutti questi motivi Novgorod si attrezzò per esportare cera di prima qualità. Per essere posta in vendita in contenitori standard la cera novgorodese doveva essere pulita e filtrata accuratamente, liberata di ogni altro grasso estraneo, e tutto sotto il controllo dell’unica gilda di cui abbiamo notizia nelle Terre Russe: i Cerai di San Giovanni sulle Marne, con tanto di capitolato ufficiale. Questi rilasciavano il marchio di qualità e pesanti multe aspettavano chi non avesse ottemperato a tutte le prescrizioni previste dai Cerai prima di caricare cera sulla nave in attesa in uno dei porti sul Volhov!

Altro articolo molto interessante era il miele.
Questo prodotto, raccolto insieme alla cera, serviva sia da dolcificante sia per la fabbricazione di bevande fermentate ad alto contenuto alcolico (l’idromele, sacra bevanda alcolica balto-slava). Nel Sud però c’era l’apprezzato vino di antica origine orientale che, per di più, era l’unica bevanda permessa nell’Eucaristia cristiana. Quanto al dolcificante, c’era la canna da zucchero fornita dagli Arabi, per cui il miele novgorodese o delle altre Terre Russe tale e quale era esportato, naturalmente in quantità minori, in altri mercati.

 

12 aprile 2008

 

Aldo C. Marturano

 

Bibliografia scelta

J. K. Begunov (red.) – Skazanija Novgoroda Velikogo, Minsk, 2004
M. Bloch – La società feudale, Torino, 1976
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