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Associazione Culturale Micene

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- Oltre la guerra il petrolio -

 

Tra i vari telegiornali, e programmi di approfondimento impegnati a discutere delle più improbabili problematiche, mi chiedo per quanto tempo ancora “nostra signora ipocrisia” dovrà regnare sovrana. Non si registra nessuna nota di coraggio. Tutti impegnati a dipingere l’Iraq come il più grande produttore di armi di distruzione di massa e l’Afghanistan come la culla del terrorismo internazionale. Nessuno che ci spieghi candidamente come stanno le cose. Nessuno che ci faccia riflettere sugli interessi legati al petrolio ed ai paesi sotto il cui suolo il petrolio giace.

Interessi che, intendiamoci, potrebbero anche risultare legittimi. Ma la legittimità degli interessi economici forse impone margini troppo stretti per giustificare una guerra. C’è bisogno di un mostro, di un pericolo per il popolo, affinché la coscienza di un paese sia disposta ad affrontare i sacrifici necessari per vincere un conflitto. Citando il più grande teorico militare di tutti tempi, Karl von Clausewitz: “Per vincere una guerra è necessario che il popolo sia sicuro di combattere dalla parte dei giusti”.

Al di là di questo, credo che per intuire le ragioni di questa crisi sia necessario:

~ Avere un’idea delle condizioni che stanno alla base dell’economia del petrolio

~ Capire i meccanismi che determinano la spartizione del surplus petrolifero

~ Memoria storica

Il petrolio e il gas naturale sono le fonti energetiche più consumate nel mondo, con circa il 65% del totale, essi sono quindi fattori produttivi essenziali allo sviluppo delle economie. Interi settori produttivi, come la chimica e i trasporti, dipendono in modo obbligato da queste risorse.

Dal lato dell’offerta, l’industria petrolifera è caratterizzata da alta intensità di capitale, da alto rischio e da elevate economie di scala. Questo ha portato alla creazione di enormi imprese fortemente integrate, che si occupano di tutte le fasi della catena del valore legata alla produzione di petrolio (esplorazione, perforazione, estrazione, stoccaggio, trasporto, raffinazione, commercializzazione).

La domanda è caratterizzata da bassa sensibilità ai prezzi e da un’alta elasticità al reddito. Il che significa che una delle determinanti principali della domanda di petrolio è il PIL. Da ciò discende, ovviamente, che i maggiori consumatori di petrolio sono i paesi industrializzati.

Tali paesi, oltre a consumare petrolio, si accaparrano la maggior parte del surplus petrolifero (in tal caso surplus del consumatore). Il surplus del consumatore è definito come la differenza tra ciò che egli paga per acquistare un prodotto e il prezzo massimo che sarebbe disposto a pagare. La maggior parte del barile raffinato è venduta ai consumatori finali a prezzi che hanno scarsa aderenza con quelli a cui è scambiata sui mercati internazionali, con i costi industriali, e ancor più con quelli della materia prima.

Alla fine del 1995 il prezzo medio ponderato dei prodotti petroliferi si aggirava in Italia sui 121 $/bbl (dollari per barile), contro i 35 del prezzo medio al netto delle imposte ed appena i 18 di costo della materia prima. 86 $/bbl, in altre parole il 71% del prezzo finale, erano dati dalle imposte. Ciò significa che lo Stato italiano, su un consumo annuo di 2 Mbbl/d (milioni di barili al giorno), incassa imposte pari a quelle che complessivamente percepisce l’Arabia Saudita su un volume di esportazioni di 8 Mbbl/d. Da ciò sono dipese essenzialmente le due crisi petrolifere subite durante gli anni ’70.

Nella guerra tra Stati produttori, Stati consumatori ed imprese per accrescere e spartirsi la rendita petrolifera non può certo dirsi siano i primi ad aver vinto. Oggi gli Stati produttori si accaparrano circa il 20% del surplus petrolifero, nonostante il petrolio, per la più parte di essi, rappresenta l’unica e spesso insufficiente fonte di reddito. Un caso emblematico è rappresentato dal Venezuela, quinto esportatore di greggio nel mondo.

Facendo un salto nel passato, vorrei riportare alla memoria i fatti e gli antefatti della guerra contro l’Iraq del 1990/91.

La cosiddetta “Crisi del Golfo” inizia la notte tra mercoledì 1 e giovedì 2 agosto 1990, con l’invasione del Kuwait da parte delle forze militari irachene, e termina all’alba del 28 febbraio 1991 con l’annuncio del Presidente americano George Bush dell’ordine impartito all’esercito di coalizione di cessare il fuoco, dopo che esso aveva conseguito con schiacciante superiorità la piena liberazione del piccolo stato arabo e dopo che l’Iraq aveva accettato tutte le risoluzioni dell’ONU.

Dopo 211 giorni di feroce occupazione irachena, 205 giorni di totale embargo, 42 giorni di bombardamenti e 100 ore di campagna terrestre, il Kuwait era restituito alla sua legittima sovranità. Rimanevano sul campo di battaglia 100 mila soldati iracheni contro i 165 dell’esercito alleato, 3700 carri armati iracheni distrutti contro 2 alleati, 141 aerei contro 37 oltre agli 800 pozzi petroliferi in fiamme su 858 produttivi.

Di questa successione di eventi, pur vissuti dal mondo intero con partecipazione per il ruolo dirompente dei mass-media, a distanza di tempo mi pare siano rimaste scarse tracce nella memoria collettiva. Essi sembrano apparire come un lontano incubo a cui guardare con fierezza, nonostante ancora una volta, la guerra di per sé non abbia sortito risultati politici rilevanti a discapito comunque di enormi sacrifici umani ed economici, soprattutto se si considera che il Rais è ancora saldamente al potere.

Saddam accusava i paesi ricchi del Golfo di disattendere gli accordi sottoscritti in ambito OPEC. Fatto che, al di là delle forzature irachene, era palesemente vero almeno dal 1989. Tali Paesi immettevano quantità di petrolio superiori a quelle programmate, causando un eccesso d’offerta e spingendo i prezzi di mercato al ribasso, agevolando gli interessi dei Paesi consumatori e dei ricchi Paesi produttori.

La severa lezione impartita al Rais iracheno, il ritorno in forme più o meno palesi della presenza americana nell’area mediorientale, fecero apparire il quadro delle prospettive alquanto rassicurante. Si sopravvalutarono gli esiti positivi di breve periodo, sminuendo le motivazioni che originarono la crisi e che ne decisero lo sviluppo. Tali motivazioni si sono rivelate né occasionali, né limitate. Nessuna vittoria può permettere di risolvere e governare completamente le cose del mondo, né tantomeno del mondo petrolifero e delle fonti energetiche in generale, e le esperienze del passato dovrebbero suggerire qualche insegnamento.

Oggi come 12 anni fa, il dibattito tra interventisti e pacifisti continua ad oscillare tra ingenuità ed ipocrisia, attribuendo al petrolio un ruolo del tutto secondario se non addirittura accidentale. Le parole che allora pronunciava il Presidente Bush - …our way of life, our own freedom of friendly countries around the world – oggi fanno ridere. L’esistenza di cause economiche legate al petrolio era ed è oggi del tutto assente.

La storia ci ha proposto la tragedia, adesso godiamoci la farsa!

 

16 gennaio 2003

Domenico Ventra

 

   
     

 

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