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- L'Arte nel XXI secolo -
Una domanda prima di tutto: cos’è Arte? La risposta: è possibile che, in un’era tecnologica dove economia e mercato stabiliscono le leggi per un’incontrastata sovranità, l’uomo abbia parzialmente dimenticato il reale significato della parola arte. Per trovare una definizione pertinente, mi vien fatto di propagare lo sguardo a ritroso nei tempi: mi piace considerare arte ogni attività che si prefigga il raggiungimento della bellezza e della verità tramite libertà di pensiero e autonomia di rappresentazioni. E ancora: espressione umana del s ub lime attraverso la ricerca dell’unione tra la spiritualità dell’anima e le attività della vita terrena, le sue forme e ogni aspetto manifesto. Ebbene, nell’ultimo secolo, il Novecento, si ha avuto l’impressione che la bellezza e il senso del s ub lime non venissero cercati, dall’artista, in maniera preminente. Quest’ultimo ha impegnato buona parte del suo tempo dedicandosi a linguaggi ermetici, simbolici, dove il significato di ciò che viene immediatamente percepito, o di ciò che traspare dall’opera, rappresenta soltanto la facciata dell’espressione del significante. La vera forza dell’arte novecentesca (quindi sia delle arti figurative che della musica, della letteratura, del teatro) è da ricercare proprio nell’ambito di ciò che il significante riesce a celare in un primo impatto. La riflessione del fruitore diventa parte integrante dell’opera dell’artista. Artista e fruitore (in questo caso si consideri come fruitore colui che beneficia solo dell’opera compiuta, quindi non colui che la esegue) si tengono per mano l’uno di fronte all’altro, il primo a chiedere collaborazione da parte del secondo. Il bello non è più da ricercarsi nel risultato manifesto dell’opera, ma, al contrario, spesso è negato al fruitore stesso; la comunicazione, per quest’ultimo, diviene un complesso lavorio formato da percorsi introspettivi, da stimoli sensoriali che conducono in regioni non chiaramente definite a priori dall’artista. La libertà dell’artista stabilisce i canoni per il raggiungimento di queste nuove verità: la bellezza sovente è da trovarsi in zone oniriche, nell’irrealtà ripudiata dal reale. La trasgressione mostra i denti, il sublime lascia spazio al subliminale. Quanto influirono le scoperte e le considerazioni sull’inconscio da parte della psicoanalisi, nel campo delle arti? Tanto, tantissimo; i manifesti delle varie correnti dell'avanguardia parlano chiaro: simbolismo, surrealismo, dadaismo, cubismo, astrattismo eccetera. C’è da chiedersi se il nuovo secolo serberà ancora sorprese nell’ambito di sperimentazioni, o se assisteremo, invece, a un ritorno verso canoni più classici. Una visione globale della Storia potrebbe far pensare appunto a un riflusso, con possibili richiami ad una bellezza propriamente definita. Ma la Storia dei secoli passati nulla avrebbe da spartire con la Storia futura, che pare inoltrarsi a gran velocità lungo i binari del digitale, dei computers, e farsi spazio fra le innumerevoli possibilità del mondo virtuale, inserito, dunque, in una realtà dialogico-immaginifica. L’era tecnologica di inizio millennio coincide con un’era di immagini, sì, ma di immagini in movimento: un movimento sfrenato d’immagini. Proviamo a procedere per similitudini consecutive: queste realtà virtuali, questa sorta di straniamento collettivo, potrebbero attingere acqua pura dalla fonte di una bellezza di matrice, ad esempio, romantica? Le due situazioni non sembrano affatto incompatibili, ma, semmai, complementari. Se, da un lato, è vero che il giovane hippy (giovane adulto in voga negli anni sessanta, socialmente impegnato) emulasse involontariamente il comportamento di un Byron irrequieto e assetato di essenza della vita, da un altro punto di vista non è difficile notare come, in pratica, le arti pop abbiano spesso rappresentato un compendio di stilemi preesistenti di vari espressioni artistiche (l’arte del collage, ad esempio, o della fusione di linguaggi di musica classica, blues, jazz, folk, etnica etc.), manifestazione di una cicatrizzante evoluzione tra ferite esistenziali mai completamente rimarginate. La responsabilizzazione degli strati sociali più disagiati coincide con una richiesta di sperimentazioni non solo artistiche, ma anche di vita: la contestazione del giovane hippy impone irriverenti ed inquietanti cliché; egli sperimenta l’amore e la vita di gruppo, viaggia da un capo all’altro del globo con lo scopo di apprendere nuove culture, ricorre all’aiuto di droghe orientali, aborrisce la guerra, mette in discussione l’intera struttura delle civiltà occidentali, mentre l’alleato nero d’America è ancora impegnato in rivendicazioni di eguaglianza razziale. Ad una vita estremamente romantica, nella quotidianità dell’artista di questo scorcio di novecento, quasi mai corrisponde un risultato altrettanto romantico nel prodotto artistico. Né si creda che questa sia una mera caratteristica del pop: il musicista nero purista di Jazz si rifugia, in quegli anni, nel free jazz, musica di difficile comprensione, da parte di coloro che non ne abbiano condiviso le esperienze di vita; e i compositori che lavorano nell’area della dodecafonia e della musica elettronica non ottengono risultati più incoraggianti, in questo senso. Ma ora, da circa due anni nel nuovo secolo, il percorso delle sperimentazioni novecentesche appare ormai concluso: l’esperienza del vivere manifestazioni dell’inconscio durante una situazione cosciente, sembra essere stata abbandonata dall’uomo contemporaneo. Le recenti musiche New Age hanno saputo creare atmosfere rilassanti e convincenti, sostituendo, a pieno titolo, quelle psichedeliche di trenta, quarant’anni prima, prolifiche, ma spesso visionarie. Il terreno sembra fertile, per un ritorno alle arti romantiche. L’artista, nel nuovo millennio, si trova, però, di fronte al computer digitale: si specchia in una realtà virtuale che nulla ha da invidiare alle molteplici possibilità di sbocco da parte di pulsioni generatrici d’arte. Elettrodomestici parlano ormai il linguaggio multimediale, divenuto pane irrinunciabile per le mandibole dell’uomo del 2000. Tutto questo, col romanticismo, probabilmente c’entra come i cavoli a merenda. A meno che non si voglia mutare il significato e l’accezione della parola Arte. Cosa, però, tutt’altro che condivisibile. Sì, perché arte è qualcosa che esiste in natura, nulla di artificiale o artificioso, dunque. L’arte è dentro di noi, non all’interno del computer o di altri macchinari. Né le significative scoperte della fisica quantistica hanno influenzato, in maniera altrettanto significativa, qualcosa che non sia più di una piccola frazione di percorso dell’arte del Novecento. Anch’io non rimasi immune dal fascino del ritorno operato attraverso le necessarie teorie filosofiche di Guitton attorno al Metarealismo, nell’ultimo decennio del Novecento. Non bisogna dimenticare che il progresso tecnologico, con l’avvento del digitale, ha intensificato le possibilità di addivenire a scoperte scientifiche in maniera abnorme. E allora soltanto una voce metafisica sembrava dar corpo a qualcosa di realmente consistente nell’edificio costituito tra i resti di attività in continua mutazione e ricostruzione. Il risultato dell’opera dell’artista, laddove avesse lasciato spiragli aperti alle voci del metarealismo, altro non sarebbe stato che il raggiungimento di attività di pensiero particolarmente speculative, vicine, sì, al progresso scientifico, un po’ meno alle istanze della coscienza. Allora, l’Arte del Novecento, quella più vera, nel senso più attendibile, più comunicativa, penso sia stato possibile percepire in maniera esaustiva nel Teatro, allorché l’attore sia riuscito a vivere sul palcoscenico situazioni incontaminate. (Becket, in questo campo, non resta forse un esempio convincente di come si possa essere stati innovativi senza, al contempo, tralasciare gli insegnamenti che la Storia e la vita ci abbiano trasmesso?). Un suggerimento all’artista del nuovo millennio, in qualsiasi settore operi, potrebbe essere: nel momento in cui crea, a prescindere dai risultati che otterrà (che, per adesso, non ci interessa conoscere), dovrebbe riuscire ad astrarsi dalla realtà cittadina; non importa se la situazione sia inserita o no in essa, l’importante è riuscire a dare risposte utili, non emulative (anche se non negli intenti) di malesseri ormai conclamati. L’Arte potrebbe essere ricercata nella Natura, distante dalle macchine e dall’industria, lontana da un mercato isterico e possessivo che tutto divora e niente perdona; un mercato che si erge (o, perlomeno, che vorrebbe ergersi) a realtà contemporanea. Una realtà che, come abbiamo visto, non è realtà vera, bensì virtuale. Testimoni sono i mezzi di comunicazione sempre più celeri ed efficienti, tanto da farci dimenticare il reale valore delle distanze. “Quanto tempo ci vuole per andare ai Caraibi? E in Australia?” Le distanze non si misurano più attraverso lo spazio, ma attraverso frazioni di tempo: “In Scozia solo poche ore? Allora la Scozia è qui vicina.” Certo; un po' meno, però, se si decidesse di andarvi a piedi o a cavallo. Via libera, dunque, anche alla possibilità di rivisitare correnti che abbiano considerato l’Arte come scaturente da condizioni naturali, situazione necessaria per sopperire alle carenze delle attività dell’uomo contemporaneo. Troppo spesso si è caduti nella riproduzione di suoni e di rumori di macchinari e di tubi di scarico. Basta con la contaminazione del tecnicismo tecnologico! La coscienza dell’uomo ne è satura. Troppo facile sarebbe cadere tra le maglie di un fortuito oscurantismo di natura digitale. Cerchiamo di distinguere fermamente l’arte dalla tecnologia (le quali, come abbiamo visto, per natura sono in antitesi). La Storia del Novecento è, non dimentichiamolo, sicuramente Storia passata (anche se di un passato prossimo fa parte). L’Arte nel terzo millennio, si sente nell’aria, è e vuole essere soprattutto natura, anzi: Realtà della Natura.
Piero Donato
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